Un altro aspetto della fantasia nasce da relazioni per affinità visive, o di altra natura. Picasso scoprì un giorno che la carrozzeria di una piccola automobile giocattolo, vista di fronte, assomigliava a un muso di scimmia, ed ecco che l’artista si mette a costruire una scultura dove la scimmia ha ancora il giocattolo automobile come muso, ma si vede ormai solo come muso e, solo con un piccolo sforzo mentale, si può riscoprire la carrozzeria dell’auto giocattolo. […] Questo particolare caso della fantasia ci induce a considerare come ogni cosa può essere vista anche in altri modi.
Bruno Munari, Fantasia
La tradizione del paesaggio urbano nella storia dell’arte contemporanea ha numerosi esempi, tra i più famosi quello di Mario Sironi. L’atmosfera plumbea, cupa della città vista nelle ore notturne e nelle sue periferie più degradate e desolate rimanda alla concezione della metropoli come grande macchina inquietante e spersonalizzante, in cui l’uomo ha abdicato al suo ruolo sociale soccombendo all’alienazione determinata dalla moderna società industrializzata.
Il cinema ha attinto a questi scenari urbani depositati nel serbatoio di immagini della memoria quando ha avuto necessità di creare fondali angosciosi a storie di replicanti o di uomini-zombie reduci di un’apocalisse metropolitana. In Blade Runner e 1997: Fuga da New York la città pachidermica si muove sotto la pelle della storia con il suo pesante corpo di macerie, angoli oscuri e scampoli di post-umanità.
Le opere di Alessio Privitera della serie Personal City evocano ai miei occhi questa atmosfera di città abbandonate ad un destino di degrado dove l’uomo non presidia più l’urbana quotidianità.
Questo è ciò che vedono i miei occhi: palazzi e strade deserte, giganteschi uomini-robot che avanzano lasciando dietro di sè una scia di distruzione; aerei che sorvolano periferie oscure quasi che la visione della città contaminata sia possibile solo alla sicura distanza di 2000 piedi.
Tuttavia l’occhio è ingannato dalla vera natura di ciò che Privitera predispone. Con il preciso intento di tendere un tranello che ci faccia riflettere sulla potenza dell’immagine, l’artista usa la fotografia, mezzo tecnico che promette massima fedeltà al vero, cui aggiunge il disegno, allo scopo di cambiarne il senso. Fotografa macroscopicamente l’interno di un PC: circuiti, chipset, porte Ethernet, USB e attacchi per RAM e microprocessore sono scrutati dall’occhio fotografico dell’artista da prospettive che ne distorcono la normale visione producendo un effetto straniante. L’utilizzo del macro, della prospettiva ravvicinatissima trasforma una porta Ethernet in un palazzo sventrato da violente esplosioni o da un devastante terremoto; attacchi per RAM e altre schede in stecche di casermoni da quartiere dormitorio. A rafforzare l’inganno Privitera interviene sulla fotografia disegnando elementi che richiamano alla memoria i già citati capolavori cinematografici di fantascienza. Sbucano da ogni angolo robot replicanti o brandelli di umanità; gru e impalcature si arrampicano sui palazzi in eterni cantieri di una ricostruzione che non vede una fine.
Così l’occhio dell’artista stabilisce nuove relazioni tra le cose: il cambio di dimensioni è sufficiente ad ingannare l’osservatore. Non a caso Privitera utilizza il mezzo fotografico, media hi-fi che tuttavia si presta ad una lettura creativa permettendo giochi illusori come nessun’altro.
Alla radice degli esperimenti di Privitera c’è la riflessione sulle ambiguità della percezione umana determinata da una formazione da psicologo, da una parte, e dalla collaborazione con un artista del calibro di Gabriele Devecchi, dall’altra. In occasione di Il Mercurdo: biennale dell’assurdo (Castelvetro di Modena, 2009) Privitera e Devecchi allestiscono il Cammino tra percezioni incerte, un’installazione ambientale che tramite una successione di situazioni percettive ambigue percorribili condensa i principi di un’arte interattiva che richiede la partecipazione del fruitore allo scopo di risvegliarne la coscienza sensoriale.
Nelle opere di Personal City si ritrova, anche se in bi-dimensione, la stessa volontà di mettere in crisi le certezze percettive dell’osservatore spingendolo ad un approccio attivo nella decodifica dell’immagine. Dice Privitera: “E’ quindi fondamentale chiarire cosa l’osservatore sta osservando. Il significato che la percezione dello spettatore avrà costruito su quell’immagine sarà stravolto, cambiando quindi radicalmente, dopo l’incontro con la realtà”.
Bruno Munari, quello delle forchette parlanti (1958) e dei libri illeggibili (1949), in Fantasia esamina i meccanismi della creatività e dell’immaginazione, che non sono prerogative del genio ma di chiunque sia in grado di connettere le cose in modo diverso dal consueto tramite cambi di dimensione, di colore, di posizione, di funzione, così come nell’esempio di Picasso citato in esergo. Munari è stato un personaggio determinante per il lavoro artistico di Gabriele Devecchi, soprattutto per gli aspetti ironici e ludici che l’opera d’arte deve avere per stimolarne una fruizione attiva al di là della mera contemplazione di un risultato esteticamente godibile. Credo che Privitera si sia nutrito per riflesso, quasi inconsapevolmente, dello stesso humus, arrivando a considerare gli aspetti più ambigui della rappresentazione e mettendosi nel solco di chi, come Munari, riconosce alla “fantasia” il potere di attivare relazioni inconsuete tra le cose creandone di nuove.
Alice De Vecchi
PhD in Design e studiosa di storia dell’arte contemporanea, insegna nella Scuola di Conservazione e Restauro dell’Università di Urbino e svolge attività di ricerca interdisciplinare.
